Ad oggi, 15 gennaio 2024, l’imbarcazione dispersa al largo di Lampedusa, con a bordo almeno 40 persone, non è stata ancora ritrovata. Nella speranza che la barca venga rintracciata e le persone a bordo tratte in salvo, ancora una volta questa vicenda ci porta a fare una riflessione. Spesso i cadaveri delle persone migranti morte in mare non vengono né identificati né restituiti alle loro famiglie. E in molti casi si finisce per seppellirli nei nostri cimiteri senza nome e cognome. Solo con un numero sulla lapide.
Secondo il Progetto Missing Migrants dell'OIM 28.320 uomini, donne e bambini sono morti o scomparsi nel Mar Mediterraneo dal 2014. Quasi il 90% (2.271) delle persone morte o scomparse nel 2023 - il numero più alto registrato dal 2017 - stava attraversando la rotta del Mediterraneo centrale. Ma molti dei loro corpi non sono stati identificati, e le famiglie a casa non sanno cosa è accaduto ai propri cari. «Dietro alla catastrofe visibile dei naufragi e delle morti nel Mediterraneo esiste una catastrofe invisibile che riguarda i corpi recuperati, in quanto non si fa abbastanza per identificarli e informare le loro famiglie», dice Tareke Brhane, presidente del Comitato 3 ottobre.
Quello che resta sulle spiagge non viene mai raccolto sistematicamente o custodito per supportare l’identificazione. E anche la gestione dei dati sui corpi non è organizzata e omogenea. In Italia, per esempio, ogni regione archivia i dati in maniera indipendente. E nel resto d’Europa non va meglio. L’Italia dal 2013 ha avviato, tramite il Commissario straordinario per persone scomparse e l’istituto Labanof di Milano, due progetti sperimentali per individuare un metodo standard per l’identificazione delle persone migranti morte in mare nei naufragi di Lampedusa del 3 ottobre 2013 e del 18 aprile 2015.
L’identificazione, però, è difficile e va a rilento ed oramai sono passati dieci anni. E intanto le procedure seguite sulle banchine dei porti sono tutt’altro che standard. «La prima fase fondamentale è quella del recupero dei corpi», continua Tareke Brhane, presidente del «È fondamentale recuperare i cadaveri, dato che quelli che non vengono recuperati non potranno essere identificati”. Dalle condizioni meteorologiche al tempo necessario per portare la salma sulla terra, tutto influisce sullo stato di decomposizione dei corpi e di conseguenza sulla facilità con la quale viene fatta l’identificazione. Organizzare un pronto recupero dei cadaveri è quindi essenziale per mantenere un livello alto di identificazioni».
Ma ci sono diverse falle nel sistema. «Un esempio: quando un corpo è portato con successo a bordo, è fondamentale che venga trasportato adeguatamente. La maggior parte delle navi che operano nel Mediterraneo però è sprovvista delle infrastrutture necessarie, come le celle frigorifere». In Sicilia, a rispondere alla chiamata d’emergenza per un naufragio sono la Marina militare italiana, la Guardia Costiera, ma anche le navi di Frontex e le tante gestite da organizzazioni internazionali o dalle ONG. In vista dello sbarco delle persone sopravvissute e dei cadaveri in porto, la Procura della Repubblica nomina poi una squadra per condurre l’indagine. La buona riuscita di una identificazione dipende dalla raccolta dei dati post-mortem sul corpo – Dna, effetti personali, testimonianze – e di quelli ante-mortem ottenuti dalle famiglie. Una fonte preziosa sono le interviste alle persone sopravvissute, che però non sempre vengono svolte per fini identificativi.
E anche il recupero di carte di credito, foto, telefoni e sim card il più delle volte è limitato per mancanza di personale. Il comune di arrivo dovrebbe fornire, poi, strutture refrigerate negli ospedali o nei cimiteri per gli esami e la conservazione, ma questo diventa problematico quando le istituzioni devono gestire un numero elevato di cadaveri (ndr. a Cutro, ad esempio, i cadaveri vennero messi nel Palazzetto dello Sport e lì rimassero per settimane). E gli anatomopatologi non fanno sempre l’autopsia. È, infatti, il Procuratore che la deve richiedere, il che avviene quando il medico legale ha dei dubbi riguardo alle cause di morte. Che non sempre è l’annegamento.
«Il metodo più comune usato oggi è l’identificazione visiva, poiché necessita che un solo parente sia presente per identificare il corpo», dice Brhane. Ma questo tipo di identificazione «è limitata ai soli casi in cui il parente era in viaggio con il defunto e sia sopravvissuto, o nel caso in cui il parente possa venire velocemente in Italia». I poliziotti o i membri della Scientifica fotografano il corpo da diverse prospettive, e allegano un numero assegnato al deceduto. Così ogni istituzione registra il cadavere in maniera autonoma. «Attualmente un archivio centralizzato dei campioni di Dna ottenuti dai deceduti, che consenta a un’unica istituzione di gestire l’identificazione legale, non esiste», dice Brhane. «Un sistema efficace sarebbe quello di raccogliere dati secondo un metodo standard e conservarli in banche dati centralizzate che agevolano la condivisione con attori di altre istituzioni e Paesi, consentendo un confronto fra dati ante e post-mortem».
Ma «attualmente c’è un vuoto politico attorno al problema, segnato da una collaborazione minima fra i differenti enti statali, una mancanza di indagini efficaci e tentativi ridotti di contattare le famiglie dei dispersi». Il risultato è che la maggior parte dei cadaveri, alla fine, viene sepolta senza identità. E migliaia di famiglie nei Paesi di origine, non coinvolte nelle indagini, sono ignare della sorte dei loro cari e vivono in uno stato chiamato di “perdita ambigua”. I bisogni delle famiglie sono chiari: cercano una risposta, una soluzione alla mancanza di chiarezza riguardo alla sorte dei dispersi – sono vivi o morti? In un caso o in un altro, vogliono anche sapere dove sono i parenti scomparsi: se sono morti, le famiglie vogliono recuperare il cadavere e riportarlo a casa, così che la persona scomparsa possa essere sepolta con tutti gli onori in uno spazio che restituisce il parente alla famiglia. “La raccolta dei dati ante-mortem per fini identificativi deve essere migliorata», ribadisce Brhane, «con il coinvolgimento delle famiglie”. Ma anche quando il corpo viene identificato, la restituzione della salma non è scontata. «Se le famiglie devono venire in Italia o in altri Paesi Ue», spiega Brhane, «hanno bisogno di un visto, che è spesso difficile da ottenere”. Né esiste in Europa un visto umanitario per gestire situazioni di questo tipo. I confini, insomma, valgono anche dopo la morte.!
Da oltre 10 anni come Comitato 3 ottobre ci battiamo per restituire un nome alle persone morte nel Mediterraneo, convinti che questa sia una battaglia di civiltà.